Le imprese possono vietare ai propri dipendenti di indossare sul luogo di lavoro, dove abbiano contatti col pubblico, segni visibili di natura politica o religiosa (come l’hijab, cioè il velo islamico o il crocifisso cristiano), purchè si tratti di una norma applicata in modo generale. Una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose (come, nel caso in esame, il velo islamico) non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi della direttiva 2000/78/CE (parità di trattamento sul lavoro): la condizione, ha precisato la Corte di Giustizia è che tale norma debba essere applicata in maniera generale e indiscriminata. È, quindi, legittima la “sospensione” delle dipendenti di un asilo nido e di una catena di negozi, che non hanno voluto rispettare il divieto imposto dai loro datori di lavoro. Sempre i giudici di Lussemburgo hanno indicato le condizioni che possono giustificare la differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da tale divieto interno all’impresa conseguente alla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti. La sentenza ha destato le dure accuse di islamofobia della Turchia, dimenticando che il principio si applica anche ad altri segni visibili come il crocifisso cristiano e la kippah ebraica (Corte di giustizia UE, sentenza 15 luglio 2021, cause riunite C-804/18 IX / WABE e.V. e C-341/19).